Storie intorno al fuoco

Salvare la vita ad una persona, una esperienza di vita professionale ineguagliabile. A me è capitato. Qualche anno fa il dipartimento della comunicazione del mio Ministero decise di inviare una nota a tutti i comandi in cui si richiedeva al personale di narrare eventuali interventi che per particolarità avrebbero potuto essere inclusi in un libro dal titolo Storie intorno al Fuoco che fu poi successivamente pubblicato. Nonostante l’episodio così paticolare mi fosse successo anni prima decisi comunque di inviare al dipartimento il racconto di un mio intervento in cui salvammo la vita ad una ragazza non ancora ventenne. Ero quasi certo che lo avrebbero pubblicato perchè quanto successe quella notte sono sicuro che non si riverificarà mai più. Di seguito pubblico il racconto che inviai io, in quanto quello poi tradotto nel libro, per ragioni di spazio e di lettura, fu poi ridotto e romanzato e secondo me non rendeva appieno la situazione che avevo vissuto. Tra tutti quelli pubblicati, un centinaio, fu anche uno dei pochi scelti per farne un fumetto pubblicato su Obiettivo Sicurezza.

Due ragazze a notte inoltrata stavano percorrendo una strada interna dell’abitato di Pontelagoscuro credendo di trovarsi sulla strada principale che collega il paese alla località denominata Barco.

Errore di valutazione fatale che le portò ad arrivare a forte velocità sull’argine di un canale di scolo che attraversa la strada. Anziché trovare il ponte che si trova sulla strada principale trovarono il vuoto.

Sempre a causa della velocità l’auto, con un vero e proprio volo, si schiantò frontalmente sulla riva opposta e con l’inerzia si ribaltò in avanti appoggiandosi sulla capotta.

Tale urto creò la situazione paradossale che avremmo trovato all’arrivo sul posto. La ragazza a fianco del posto di guida, che era senza cintura, con l’impatto era stata sbalzata con la testa fuori dall’abitacolo in quanto, sempre per il forte urto, si era staccato il parabrezza nella parte superiore dal telaio dell’auto. Il successivo ribaltamento però, con l’adagiarsi dell’auto sulla capotta, creava tra la capotta stessa ed il parabrezza una morsa fortissima che imprigionava la testa della ragazza all’altezza della fronte e della nuca. Fortunatamente e sfortunatamente allo stesso tempo la piovosità di quei giorni aveva reso il terreno dell’argine del canale (ma anche della campagna circostante) completamente fangoso, facendo si che la parte di testa che rimaneva imprigionata fuori dall’abitacolo fosse immersa nella melma a pochi centimetri dall’acqua senza rimanere schiacciata.

Oltre al quadro appena descritto questa fu la situazione che ci si presentò e si venne a creare:

la volante della stradale, che nel frattempo era già arrivata in quanto la segnalazione ci era stata data proprio dal 113, era sulla strada (a circa 50 mt. dal luogo dell’incidente). Noi col Comby (automezzo attrezzato per intervenire sugli incidenti stradali) tentammo di entrare ma ci impantanammo nello stradone agricolo pieno di fango.

Ci precipitammo di corsa. Appena scesi dall’argine entrammo nell’auto dalla porta lato autista che era rimasta aperta perchè la ragazza che guidava a fianco della compagna imprigionata (la stessa stava urlando disperata vicino ai colleghi della polizia) era uscita da lì. L’altra portiera invece era immersa nel fango e quindi impossibile da aprire in tempi rapidi. Il corpo della ragazza imprigionata si presentava a testa in giù, completamente inerme col corpo rannicchiato su se stesso per l’inerzia del suo peso e con tutta la testa sotto la fanghiglia (melma mista ad acqua). Al momento pensammo fosse già deceduta in quanto il tempo trascorso ci sembrò troppo lungo per poter sopravvivere senza respirare. Proprio in quell’istante però una bollicina emersa tra la fanghiglia liquida sembrava testimoniare esattamente il contrario! Cosa era successo? Stava succedendo che l’auto slittava piano piano sempre più in basso sull’argine fangoso del canale, senza movimenti visibili ad occhio nudo, e pertanto era arrivata a coprire prima il naso e poi la bocca della ragazza da pochissimo tempo (sicuramente appena poco prima che arrivassimo noi perché altrimenti sarebbe senz’altro deceduta, bastano tre minuti di anossia per la perdita completa di conoscenza e il progredire di danni cerebrali).

Senza perderci d’animo, cosa non facile in quelle condizioni anche per dei pompieri, in pochi ed in pochissimo tempo riuscimmo a mettere in atto quelle cose che hanno permesso di salvare la vita alla ragazza.

Mentre io continuai senza pausa di movimenti a tenere libera la bocca dal fango e dal liquido che arrivava ininterrottamente ad ostruire la possibilità di respirare (ovviamente ogni tentativo di tirare fuori la ragazza era risultato vano in quanto la stretta del parabrezza e del telaio dell’autovettura era invincibile) gli altri:

1) facevano arrivare la volante della polizia (che essendo più leggera passando su terreno erboso non si impantanò) alla quale fu assicurata una fune che legata all’auto incidentata ne bloccò, anzi meglio dire ne rallentò sensibilmente, lo scivolamento (altri pochi centimetri non avrebbero consentito di frenare l’entrata di una quantità d’acqua che sarebbe diventata assolutamente troppa per essere allontanata con le mani)

2) cercavano un piccolo recipiente adatto (fu reperito lì sul posto da una famiglia un giocattolo da bimbi) che aiutasse proprio questo tipo di operazione per drenare al meglio la parte liquida, operazione che con le mani risultava sempre più difficile.

Altrettanto simultaneamente si decise che l’unica cosa che si poteva fare prima di un eventuale intervento dell’autogrù, che stava sopraggiungendo, era quello di spezzare con l’aiuto di una “cagnetta” (pinza regolabile) e della forza delle mani il parabrezza a pezzetti sino a consentire di liberare la testa di quel tanto da poterla estrarre.

Il lavoro, oltre che difficile in quanto il vetro dei parabrezza ovviamente non è un vetro normale, risultava anche pesantissimo in quanto si era immersi con le gambe sino alle cosce nel canale dove c’era poca acqua ma tanto fango. Per raggiungere il viso della ragazza, che era possibile solo dalla portiera opposta, si era completamente sbilanciati in avanti senza la possibilità di appoggiarsi (un peso aggiunto si temeva causasse ulteriore scivolamento che sarebbe risultato fatale). Ovviamente si poteva lavorare solo uno per volta in quanto non c’era spazio che per un operatore e dall’altro lato, come detto, la porta era bloccata. Chi operava quindi con una mano ed il piccolo recipiente liberava la bocca e con l’altra spezzava con enorme fatica piccoli pezzi di parabrezza per liberare la testa. Nel frattempo la ragazza finalmente aveva cominciato a dare i primi segni di vita, uno solo a dire il vero, muovendo un braccio e questo ci centuplicò le forze. Ricordo che urlai “si muove” e cominciai a dire ininterrottamente “ora ti tiro fuori, ora ti tiro fuori, ora ti tiro fuori, tieni duro ora ti tiro fuori, ora ti tiro fuori, ………..”.

Ad un certo punto, ritenendo sufficiente il lavoro fatto sul parabrezza, infilai la mano nella melma sino ad arrivare a sentire la sua testa con tutto il palmo e le dita aperte per avvolgerla. Con l’altro braccio le avvolsi all’altezza della spalla il corpo per evitare di farle lesioni, ovviamente letali, alla cervicale che, sostenendo il peso del corpo, non avrebbe concesso un movimento del collo senza ulteriori traumi. Con forza, ma con quanta più sensibilità possibile, cercai quel movimento che la poteva liberare definitivamente…. quando vidi la testa uscire ricordo che sperai con tutto il cuore che il nostro lavoro fosse veramente servito in quanto dopo quel movimento del braccio purtroppo non aveva dato altri segnali di vita. L’operazione mi riuscì ed anche questo fu salutato da frasi urlate che mi uscivano senza controllo “sei fuori” … “tieni duro” … “ti salviamo!”

La riprova che il nostro lavoro era stato utile e ben fatto l’ebbi pochi istanti dopo. Tirato fuori quel corpo che sino ad allora appariva inerme ciondolandomi sulle braccia, dopo tra l’altro uno sforzo disumano che dovetti fare per liberare le gambe dal fango senza aiutarmi con le braccia (essere atleta in quel frangente mi fu di grande aiuto), mentre mi apprestavo a portarla sopra l’argine dove c’era già il personale del 118 ad attendere, d’improvviso, con una velocità e con movimenti che ancora adesso non mi so spiegare, senza dire una parola quel corpo inerme riprese vita e me la vidi sgusciare dalle braccia per raggiungere con le proprie forze la sommità dell’argine. Forse però, più che per raggiungere l’argine, ora ritengo che sia stato per scappare da quei pochi centimetri d’acqua che certamente, in quel lasso di tempo così lungo *, l’avevano portata a pensare di essere già arrivata al termine della propria vita.

Nei giorni seguenti alcuni miei colleghi andarono a trovarla all’ospedale da dove fu dimessa dopo una settimana. Io non riuscii, non mi è mai piaciuta l’idea di far sentire qualcuno in debito con me per qualcosa che il mio lavoro mi “impone” di fare. Già questo per me, il fatto di essere pompiere e di poter compiere azioni come questa, è sempre stato una gratificazione che mi ripaga ampiamente. Quando poi succede, come in questo caso, di aver salvato la vita ad una ragazza in un modo che non succederà mai più uguale la soddisfazione rimane impressa nel cuore e nella mente per tutta la vita.

Ruggero Tosi

* Va considerato anche tutto il tempo che la ragazza è rimasta, oltre che intrappolata con un peso ed una forza premente incredibile sulla testa, a testa in giù. A quel tempo (fine anni ’80) non c’erano telefoni cellulari perciò bisogna pensare che l’altra ragazza, che era riuscita ad uscire da sola, abbia prima tentato di liberare l’amica per poi andare a suonare presso un’abitazione che infine chiamò il 113 che a sua volta chiamò noi. A questo va aggiunto il tempo di uscita e di percorso della nostra squadra ed il tempo dell’intervento. A mio parere bisogna pensare ad un minimo di 40’ tra l’incidente ed il momento in cui l’abbiamo liberata. Un lasso di tempo che per la poveretta deve essere stato interminabile soprattutto quando la melma gli aveva definitivamente impedito di respirare ed ha avuto il tempo di capire che stava sopraggiungendo la morte.

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